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mercoledì 18 novembre 2015

Il 16 novembre al Liceo Leonardo

post della prof.ssa Gabriella Gullotta




Come potevamo noi entrare in classe, aprire il registro e guardare i volti dei nostri alunni su cui si proiettavano le immagini di altri ragazzi e di altre ragazze come loro e che non sono più? Come potevamo?

Quando le nostre vite vengono sconvolte, la prima cosa a cui pensiamo sono i nostri cari e sentiamo il bisogno di stringerci a loro, di cercare, anche solo nel silenzio intenso di un abbraccio, un conforto e poi piano piano vengono le parole con cui si scioglie e piano piano si tampona, si definisce e si distanzia, pur se per poco,  lo strazio che invade l’anima. 

E questo è stato ieri nell’Aula Magna del Liceo Leonardo, la scuola è una famiglia di condivisione, un baluardo di condivisione da cui viene fuori quell’Europa democratica e civile, giovane e gioiosa, quella “meglio gioventù” o quella “generazione Erasmus” che al Bataclan  e per le strade di Parigi di un venerdì sera qualunque abbiamo visto insanguinata. Quella stessa scuola, quella stessa società civile che quando fallisce,  quando esclude e non include, quando non entra in risonanza con i legittimi bisogni degli ultimi porta altri ventenni a imbracciare un kalashnikov o a indossare una cintura esplosiva per massacrare altri ventenni, divenuti nemici per condizione, per stato e per religione. E ci appare come una guerra civile globalizzata, a Parigi come a Kabul o a Istanbul: ragazzi contro altri ragazzi.


Noi, gli adulti, i docenti, i genitori le guerre non  le abbiamo vissute, ma le abbiamo studiate, le spieghiamo ricostruendone le cause prossime e remote, ricercandone i documenti e i necessari approfondimenti, non inseguiamo le emozioni ma cerchiamo le ragioni degli accadimenti- Noi  non pensavamo che ancora un’altra guerra potesse addensarsi all’orizzonte e insanguinare le strade delle città verso le quali dal Liceo prepariamo i ragazzi ad andare, in una visione illuministica di “cittadini del mondo”, di membri  di una società a cui dare la parte migliore di sé per un processo non solo di realizzazione personale ma di progresso civile. Da tutte queste considerazione scaturisce il turbamento di noi adulti che incontra il disorientamento e lo stordimento dei nostri ragazzi.


Ieri, con questo stato d’animo, ci siamo raccolti per un incontro collettivo preparato con semplicità, affidandoci alle parole di Martin Luther King, di Quasimodo, di Grossman, di Terzani ma anche di Isobel Bowdery, una ventiduenne scampata al massacro del Bataclan e che nella sua intensa ricostruzione sa trovare, pur in quell’orrore, gesti di umana solidarietà e di speranza. Parole  per consolare ma anche per sforzarsi di disegnare uno scenario diverso, di avviare una riflessione da portare in classe, nelle attività di questi giorni che seguiranno perché l’orrore non ci investa e non ci confonda, ma sia un’occasione preziosa per studiare la storia degli ultimi cinquanta anni con un atteggiamento meno libresco e più critico, come deve essere l’atteggiamento di chi cerca le cause di questo aggrovigliato presente in cui viene scagliato. Infine un canto sussurrato sulle parole e sulla musica senza tempo di John Lennon con la sua Imagine.

Questo è stato, in un’Aula Magna gremita che a turni si svuotava e si riempiva,  in un silenzio irreale tutta la scuola si è raccolta come in una composta veglia.


Già oggi soffiano altri incredibili venti e si torna nelle classi con la consapevolezza di Hannah Arendt “la guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri” E quindi “not in our name”

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